Andrea si era recato al centro vaccinale con meno spensieratezza delle altre volte. Era arrivato alla terza dose, mentre il suo umore oscillava tra la felicità per esserne rimasto indenne ed il dispiacere per il sentirsi alla stregua di un tossico alla ricerca spasmodica della dose successiva.
Arrivò al centro vaccinale trafelato, avendo bene in mente le parole di Genny: “lo sai che Adele dopo la terza dose, una volta a casa, è svenuta, cadendo e procurandosi una profonda ferita alla guancia e alla fronte”? Le parole di Genny gli tornavano alla mente, quasi fossero una profezia.
Andrea, cercò di distrarsi, mostrando la prenotazione al tipo davanti al cancello, ottenendone un ticket, con cui mettersi in coda dinanzi all’ingresso. Attese per 40 interminabili minuti prima che la fila scorresse e si ritrovasse faccia a faccia con l’operatore della protezione civile, che con modi scortesi lo invitò ad entrare e a recarsi presso lo sportello per validare la prenotazione.
Il contrasto tra l’aria esterna, fredda e secca, e l’aria calda ed umida dell’interno, provocò l’appannamento degli occhiali, e la mascherina FFP2, malmessa, fece il resto, peggiorando ancor più la situazione.
Che caldo, pensò, mentre era in coda nell’ampio atrio della vecchia caserma, adibita a centro vaccinale.
L’ansia non si teneva più dentro e strabordava in tanti modi: dapprima la gamba destra cominciò a muoversi come impossessata, poi si ritrovò a tamburellare col piede sul pavimento ed infine ad allargare il girocollo, che pareva stringersi attorno alla gola, tirandolo col dito indice della mano destra.
Si guardò intorno. Era circondato da un’umanità varia e sconosciuta. C’era il tizio basso e largo, dalle guance rosse e col giubbotto sbottonato: “quello di sicuro avrà la pressione alta”, pensò. C’era la tipa magra magra, appena ingobbita, con il mento nascosto nel lembo più alto del cappotto di panno pesante, ed abbottonato fino all’ultimo bottone. Il ragazzino, dietro, sbuffava, mentre la distinta signora, di lato, sospirava per l’ansia e per passare il tempo. La fila scorreva lenta e l’omino allo sportello era piuttosto pignolo: voleva la tessera sanitaria ed un documento. Ne leggeva il codice a barre con uno scanner e poi stampava tre fogli che consegnava al paziente di turno, indicandogli, infine, la via da seguire. Quando fu il turno di Andrea, terminata la solita trafila documentale, lo instradò verso sinistra. “Ecco vede quella coda? Si metta li dietro, ed aspetti il suo turno”.
“Siamo dei pazienti”, rispose Andrea sorridendo, “ci sarà pur un motivo” …
Si spostò in fondo all’altra coda, e reclinò il capo. La mascherina affaticava la respirazione, la scostò un po’ dalla bocca per prendere una boccata d’aria, e fu investito da un fetore misto di azoto e zolfo. Qualcuno aveva scorreggiato, ma l’uso comune delle pesanti mascherine ne aveva attenuato gli effetti sui presenti.
Furono altri 20 minuti di attesa. Arrivò il suo turno e fu mandato in una stanza, grande quanto un intero appartamento in centro. Parlò con un medico, seduto dietro ad un banco, di quelli scolastici, piccoli. Firmò un foglio di accettazione e finalmente si mise in coda per accedere alla sala vaccini.
Le sale vaccinali erano divise: sulla sinistra si apriva la sala riservata alle donne e sulla destra quella riservata agli uomini.
Entrarono in cinque e presero posto sulle cinque poltrone disposte a raggiera nella stanza. Passò l’infermiera, con cinque siringhe già pronte poggiate orizzontalmente sopra ad un vassoio metallico. Toccò ad Andrea. Scoprì il bicipite e si lasciò praticare l’iniezione. Fu indolore e priva di sensazioni.
Fu accompagnato nella sala di attesa post vaccino, dove, dopo ulteriori 15 minuti, gli fu consegnata l’attestazione di avvenuta somministrazione e fu libero di andar via.
Uscì dalla porta laterale, abbassò la mascherina e finalmente poté respirare ossigeno, fresco ed inodore.
Il pensiero di Adele, del suo malore, e le parole gravide di pathos di Genny, si insinuarono ben presto nella sua testa. Quando arrivò allo sportello della macchina ebbe una vertigine, la vista gli si annebbiò, gli tremò la mano.
Tornò a casa guidando in maniera distratta, a tratti pensò di non ricordare più nemmeno la strada.
Parcheggiò la 500 X amaranto proprio sotto casa e corse nel suo appartamento.
Bevve con ingordigia un’intera tazza di acqua: era solito usare le tazze in luogo dei bicchieri, perché più capienti. Si toccò il punto esatto del braccio in cui era stato iniettato il farmaco e non sentì dolore.
“Strano”, pensò, “nelle due precedenti somministrazioni il braccio era stata la prima parte del corpo a dolermi, ed ora mi dolgo per il mancato dolore”.
Riguardò con attenzione il selfie che aveva scattato al momento del vaccino. Era indubbio: l’ago era stato infilzato nella carne. L’idea che l’infermiera avesse fatto una finta iniezione era da scartare.
Si sedette sul divano. Il televisore trasmetteva immagini colorate, senza audio, che era stato disattivato. Passarono due ore, si trascinò in cucina per prepararsi il pranzo.
Terminò in fretta. Non avvertiva né il dolore al braccio, né sintomi di altro tipo. “È impossibile”, pensò, “Adele è svenuta dopo il vaccino. Devo restare vigile ed in attenzione, che da un momento all’altro toccherà anche a me”.
Passò ancora un’ora, ma nulla di strano accadde. Accese un fornello, poi lo spense, pensando fosse pericoloso. In caso di mancamento, non solo si sarebbe spaccato il volto, ma avrebbe rischiato finanche di bruciarsi.
Si spostò, quindi, in camera da letto. Avvertì un lieve dolore al piede sinistro ed un accenno di zoppia. Prese la stampella che aveva riposto nell’armadio tempo addietro, usata, all’epoca per i postumi di una caduta.
Camminò all’interno della casa per abituarsi alla stampella. Simulò più volte una caduta, ma, di fatto, la caduta non arrivò, e nessun mancamento gli si era presentato.
Le parole di Genny gli rimbombavano nella testa: se Genny aveva pronunciato quelle parole, non poteva essere altrimenti. “Prima o poi”, come è accaduto ad Adele, “io mi ritroverò in terra, spaccandomi lo zigomo o forse la fronte”.
Pensò che la cosa più saggia da fare, sarebbe stata quella di riempire il pavimento di cuscini ed altri materiali morbidi, che avrebbero potuto attutire la caduta, in caso di necessità. Così fece, spargendo l’ampio pavimento con guanciali e cuscini da divano. La casa divenne un tappeto colorato e soffice, che avrebbe potuto fare la felicità di qualsiasi bambino.
Si buttò, allora, in terra, simulando il mancamento che tardava a presentarsi, rimanendo lì disteso per l’intera notte.
L’indomani mattina si svegliò tumefatto per la posizione innaturale che aveva assunto durante il sonno. La vertigine profetizzata non si era verificata. Tolse i cuscini e bevve un caffè.
Giuseppe Tecce: nato a Benevento nel 1972; si è laureato in Giurisprudenza, abilitato alla professione di Agente in Attività Finanziaria, si occupa da molti anni di cooperazione sociale, sia a livello nazionale che internazionale. Attualmente è Presidente della cooperativa sociale “Medina”, è coordinatore di Struttura Tutelare per persone non autosufficienti, ed è coordinatore dei soci di Banca Etica per il Sannio, Irpinia e Molise. È autore di quattro libri: L’agente della Terra di Mezzo, Storia di un Presidente che si credeva un topo, Il Portiere, Ljuba senza scarpe.