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“Fiaba” di Francesco Funaro

immagne copertina Fiaba

C’era una volta, tanto tempo fa, in un regno molto molto lontano, una dolce fanciulla che passava le sue giornate a ballare e cantare come un’idiota nel suo castello. Non importava quanto sole ci fosse, o quanto piovesse, grandinasse, se ci fosse il terremoto, lo tsunami o l’uragano, perché lei trovava sempre il modo di divertirsi. Il suo nome era Gaia. Gaia aveva tantissimi amici che le volevano bene dal profondo del cuore e che lei ricambiava allo stesso modo. Loro le tenevano compagnia il più possibile, ma anche quando non c’erano, Gaia non disperava mai, anzi, approfittava di quei momenti per ridere e scherzare con tutti gli animali, con i suoi fedeli mobili semoventi e con le statue magiche sparse lungo le immense stanze e gli infiniti corridoi del suo palazzo incantato.

Un bel giorno, mentre la principessa coglieva primule nei giardini reali discorrendo delle proprietà dei fiori con un lurido lombrico che passava di lì per caso, vide arrivare verso di lei una delle simpatiche guardie reali con la sua buffa uniforme viola e verde, i colori del regno. Il soldato riusciva addirittura a correre, notò la donzella, nonostante si portasse dietro l’inseparabile lancia d’argento in dotazione a tutti membri dell’unità, più dodici pugnali d’avorio levigato, una spada di cristallo nero come la notte con l’impugnatura dell’ebano più pregiato, un mitra d’oro massiccio con riserva di proiettili e un paio di bombe a mano con la fodera in pelle di coccodrillo del Nilo, per essere sempre pronti ad ogni evenienza, che fosse una guerra nucleare, un’invasione aliena, ma pur sempre elegante in caso di improvvisa visita di cortesia degli ambasciatori dei regni circostanti. Quando finalmente la guardia raggiunse la principessa, era stranamente trafelato, e Gaia provò tanta tenerezza nel vedere come il respiro affannato dell’uomo creasse delle piccole nuvolette di vapore e sorrise, standosene lì ferma col suo vestito di velluto e seta rosa e il suo cappello a falda larga ricoperto di fiori profumati e legato al viso da una leggerissima fusciacca di tulle. Quando il soldato riprese fiato, si ricompose subito e, con una voce che non tradiva assolutamente la fatica, declamò:

“Vostra altezza, giungo da voi per comunicarvi che le loro maestà, il Re e la Regina vostra madre, desiderano conferire con voi presso la sala del trono quanto prima!”
“Dite loro che li raggiungerò in un battibaleno, mia fedele guardia” rispose la fanciulla mostrando il suo splendido sorriso, così radioso da mettere in imbarazzo il soldato che, senza comunque dissimulare nulla, così come era arrivato, se ne andò.

Gaia era davvero felice di poter parlare con i suoi genitori, come lo era di qualunque altra cosa d’altronde, così si congedò dal lombrico con cui stava conversando e si avviò alla volta del palazzo, saltellando allegramente e gettando petali di rosa lungo la strada da un delizioso cestino di vimini adornato con un lussuoso nastro di raso, fermandosi soltanto due minuti nella serra per raccogliere alcune fresche e invitanti albicocche da un ramo.
Quando giunse all’enorme portone della sala del trono, si voltò un istante e vide che i petali che stava disseminando in giro già non c’erano più. Capì subito che era opera dei servitori i quali, celermente e bestemmiando nelle loro lingue d’origine, svolgevano il proprio lavoro. Sorrise tra sé e sé, pensando a quanto era fortunata e felice e sentendosi, incredibile ma vero, un pò sciocca per questo.

Entrò nel gigantesco salone sempre a passo di danza e si fermò solo quando giunse al cospetto dei genitori, facendo un piccolo e grazioso inchino. I due monarchi si ersero in tutta la loro statura dai loro troni tempestati di smeraldi e ametiste, mostrando i loro magnifici e pregiatissimi abiti, e le andarono incontro mantenendo un contegno solenne, sebbene sorridessero di fronte al frutto del loro grande amore. Fu il Re, suo padre, alto, bello e fiero, a prendere la parola per primo, e disse:

“Mia cara Gaia, il giorno della tua nascita è stato senza ombra di dubbio il più felice, non solo per me e tua madre, ma per tutto il regno! Perché da quel momento la feroce carestia che si era abbattuta sul popolo cessò di esistere per sempre, come se un accecante raggio di luce avesse squarciato le tenebre che ci avvolgevano, e tu sei stata venerata come portatrice di pace e prosperità, grazie al dono che la natura ti ha fatto.” La principessa arrossì di un pudore di vergine a quelle parole, che la colmarono altresì di benessere e gioia.
Sua madre, la Regina, continuò poi dicendo:

“Piccola mia, ma rilucente goccia di rugiada mattutina, il tuo sorriso e la tua vitalità sono sempre stati un faro, un punto di riferimento per tutti, e hanno potuto rendere felici persino le vedove più tristi e sconsolate. Un prodigio, un miracolo che mai nessuno aveva potuto vantare prima. Io e tuo padre siamo sempre stati orgogliosi di te, e soprattutto estremamente fortunati ad averti qui con noi ogni giorno per questi splendidi e impareggiabili e indimenticabili diciotto anni.”

Gaia, per quanto possa sembrare assurdo, era al limite della sua contentezza, al punto che la commozione prese il sopravvento e alcune lacrime si fecero strada attraverso i suoi dolcissimi occhi blu, per poi rigare lentamente le innocenti gote, ora un pò più arrossate. Ma fu soltanto un attimo, poi subito regalò un nuovo fulgido sorriso, ansiosa di sapere cosa potessero arrivare a dirle i suoi amati genitori dopo tutte quelle parole meravigliose, per le quali era immensamente riconoscente. Fu a quel punto che la Regina si ammutolì e assunse un’espressione che alla principessa risultò indecifrabile. Stava per domandarne il motivo quando il Re riprese il discorso dicendo:

“Ma…”
“Ma? Come ma?” pensò la pulzella, che senza osare tramutarlo in voce.
“… Ma ormai hai raggiunto l’età adulta, quindi sei pregata di fare i bagagli e sloggiare il prima possibile, così possiamo dare la tua stanza al gatto di corte.”
Gaia era incredula, senza parole dopo l’amaro boccone servitole tanto aspramente dal suo caro padre!
“E perché mai, padre?” riuscì infine a dire, singhiozzando vistosamente.
“Non disperare, mio delicato fiocco di neve. Tutti nel nostro reame alla tua età devono andare via per qualche tempo dalla propria casa, è la tradizione e va rispettata, da te in primis che devi essere d’esempio per i tuoi devoti sudditi.”
“Ma io amo stare qui, padre mio!” esclamò la ragazza, dicendo addio ad ogni riguardo “Voi mi manchereste moltissimo…e poi come farò da sola? Non lo sono mai stata, non saprei nemmeno da dove iniziare!”

Il sovrano la guardò con un moto di compassione e dolcemente le spiegò:
“Oh, mio prelibato tortellino al ragù, tu sei pur sempre una principessa. Avrai una dote con te dalla quale potrai partire. Per il resto, arrangiati.” detto ciò, la congedò.
La principessa, una volta tornata nella sua camera, pianse tutte le sue lacrime, che furono davvero moltissime perché mai prima d’ora aveva pianto in tutta la sua vita, da sempre costellata di sorrisi, amore e serenità. Poi si addormentò senza nemmeno struccarsi, o quantomeno togliere le sbavature del rimmel dal viso. Il mattino dopo, quando si ridestò, aveva in sé una nuova determinazione. Pensava che mai prima d’ora si era lasciata abbattere e che ancora una volta doveva trovare i lati positivi della situazione, non doveva arrendersi alla prima difficoltà. Così, mentre si spazzolava i lunghi capelli biondi e lisci davanti allo specchio del suo mobile da toeletta, il quale nel frattempo le faceva la pedicure, cominciò ad immaginare le mille avventure che avrebbe vissuto grazie a quell’opportunità che tanto astiosamente aveva giudicato. Avrebbe potuto visitare posti esotici, assistere ad intrepidi duelli e magari sposarsi con un principe misterioso, pensiero questo che le provocò inevitabilmente l’imbarazzo di una creatura ancora casta e illibata come lei.

E fu così che la sua ansia si trasformò in impazienza. Corse nel suo guardaroba e, con l’aiuto dei ratti di fogna, che tante volte le erano stati accanto nei momenti difficili, preparò le sue trentaquattro valigie e la mattina seguente tutto fu pronto per la partenza.
Quel giorno il cielo era terso e sereno, e Gaia era in piedi con lo sguardo verso l’alto proteggendosi con la mano dal riverbero del sole. Trasformò il pianto che le saliva agli occhi nel suo ampio sorriso, salì sulla sua carrozza a forma di carciofo, trainata da candidi unicorni alati con la chioma color acquamarina, e partì alla scoperta del mondo. Decollarono subito, e la principessa non poté trattenersi dal lanciare un’ultima occhiata al castello dove aveva sempre vissuto: si sporse dal finestrino e salutò con un debole gesto della mano tutti i suoi amici, i ratti, i mobili fatati e le statue magiche, tutti riuniti sulla torre più alta per l’occasione.

Gaia visse incredibili avventure attorno a tutto il globo: andò a pesca di stelle nelle galassie più remote, nuotò con sveltezza insieme alle sirene dell’Atlantico, volteggiò senza veli – ma timidamente – in groppa ai dragoni cinesi, si armò di paletto e proiettili d’argento per cacciare vampiri e lupi mannari nell’Europa dell’est, fu ospite della comunità più popolata di fatine di bosco in Irlanda e addirittura tentò di sconfiggere i mulini a vento olandesi. Ogni tanto le capitavano momenti di sconforto, ma c’era sempre un nuovo viaggio o una nuova terra ad attenderla e a distrarla.

Un giorno, mentre passeggiava su un prato quieto e soffice chiacchierando con un giovane zebù, vide l’arcobaleno e decise che voleva recuperare il pentolone pieno di sfavillanti monete d’oro, che notoriamente i lepricauni lasciavano alla fine dell’arco. Quando il suo amico zebù le chiese il perché agitando le corna, ricordandole che in fondo poteva ancora considerarsi sfacciatamente ricca grazie al tesoro che aveva portato con sé, lei si voltò e col suo solito sorriso rispose:

“… Ho deciso questo!” e cominciò a correre in preda alla frenesia, gettando al vento tutte le gardenie che aveva raccolto come fossero coriandoli e lasciando ondeggiare al vento la lunga gonna d’organza blu. Quando giunse in vista della fine dell’arcobaleno e del calderone traboccante d’oro, notò che c’era anche qualcun’altro lì: una figura eterea, avvolta da un alone di luce argentea che pareva provenire dal suo stesso corpo. Quando gli fu abbastanza vicina poté constatare che la sua prima impressione non era sbagliata: si trattava di un elfo. Gaia si bloccò. Mai in vita sua aveva visto tanta bellezza: la sua carnagione era leggermente abbronzata, i capelli corvini erano raccolti in una coda, ma con alcune ciocche ribelli che ricadevano sulla fronte imperlata lievemente di sudore, sfiorando gli occhi, verdi come la profondità di una foresta. Quando lui si accorse di lei, sussultò impercettibilmente: dentro di sé rimase folgorato dalla visione della fanciulla e subito la desiderò.

Passo dopo passo, erano sempre più vicini, e quando ormai mancavano pochi centimetri per toccarsi lei sussurrò, naturalmente sorridendo e arrossendo in volto:
“Il mio nome è Gaia, e sono la principessa di un regno molto lontano da qui, in viaggio da sola per scoprire le meraviglie del mondo.” e lo scrutò attentamente negli occhi, con la sensazione di perdersi nella vegetazione lussureggiante. Lui, dopo qualche secondo, parlò con una voce calda, ma armoniosa e musicale, coerente alle leggende sul suo popolo:
“Io invece sono Caleb, provengo dalla Foresta Infinita e sono il guardiano dell’oro dei lepricauni. Posso chiederti, straordinaria creatura, il motivo della tua presenza qui, alla fine dell’arcobaleno, dove io dimoro, conformemente al mio ruolo?”

La principessa era totalmente invasa da quella voce e da quelle parole, e naturalmente non poteva rivelare di essere lì proprio per il tesoro, e nemmeno ammettere che pensava di poterlo tenere solo perché lo aveva trovato.
Così non seppe proferire parola, il che per lei era una cosa più unica che rara. Allora Caleb sorrise. Era il sorriso più bello che la fanciulla avesse mai visto in tutta la sua vita: non solo era luminoso e bianchissimo, ma era come se emanasse sicurezza e felicità. Solo il suo, grazie al dono di nascita che la contraddistingueva, aveva sortito questo effetto ad altri esseri viventi prima d’ora, e per questo ne fu ancora più conquistata. Al che l’elfo parlò ancora una volta, sempre sorridendo:

“Vostra altezza Gaia, sono propenso a pensare che, dopo chissà quali mirabolanti imprese, vogliate provare anche quella più incredibile ed estrema.”
Gaia fu travolta da un’ondata di immagini lussuriose che non seppe controllare, e impazzì di imbarazzo, arrossendo fin sulle orecchie, e in preda alla timidezza bisbigliò:
“Non capisco a cosa possiate riferirvi …”

E lui rise. Una risata simile allo scorrere dell’acqua nei ruscelli, al fruscio del vento tra le fronde, poi la interruppe: “Intendo dire, vostra maestà, che potreste gradire salire in cima all’arcobaleno. E se lo desiderate, potrei accompagnarvi.”
La ragazza non aveva idea che fosse possibile, e fu talmente entusiasta di quella nuova prospettiva che le sfuggì ad alta voce un semplice:
“Sì, non desidero altro!”

Allora Caleb le cinse la vita con un braccio e insieme entrarono nella scia dell’arcobaleno, che li trasportò su, sempre più su, fino al punto più alto. Il panorama era mozzafiato, tutto era visibile da lassù, ma Gaia non si lasciò prendere dall’euforia e rimase saldamente aggrappata al bicipite muscoloso del guardiano temendo di cadere. Mica era scema. E all’improvviso, lui la baciò. E lei ricambiò, felice che il suo primo bacio fosse così magico e irripetibile. E lì, sulla cima di quell’arcobaleno, Gaia provò anche per la prima volta la gioia più grande, che lei stessa in seguito si sorprese di non aver mai provato: fecero l’amore, così a lungo che lasciarono tramontare il sole e restarono ancora avvinghiati sotto le stelle, che mai erano sembrate così brillanti.

E nel momento culminante, godette come una vacca. Ma così tanto e così di gusto, che finalmente aveva una buona ragione per sorridere come una deficiente tutto il tempo.
Lei ogni giorno tornava lì da lui, ne era ormai innamorata e non poteva farne a meno. Il desiderio di visitare il mondo era poca cosa rispetto a Caleb, alla sua voce, la sua risata, i suoi occhi e il suo… flauto magico. Ma una giovane donna come lei, così poco consapevole della vita, che mai aveva sperimentato i mali che affliggono l’umanità, abituata a regalare la sua fiducia a piene mani a tutti senza nulla chiedere in cambio, non poteva assolutamente sapere quanto Caleb fosse sadico stronzo e donnaiolo come mai nessun elfo era stato. La notte della sacra festa degli elfi, a cui lei non fu invitata, lui si presentò ubriaco d’ambrosia fatata prima di sottoporsi al rito di trasfigurazione, e la picchiò con tutta la sovrannaturale forse elfica di cui la natura lo aveva dotato. Le rubò tutti i tesori del regno che aveva con sé e fuggì nel folto della Foresta Infinita, dove mai lei avrebbe potuto ritrovarlo, lasciandola priva di sensi e sanguinante nella radura dove erano soliti incontrarsi, con la sola luce della luna a tenerle compagnia.
Si ridestò solo due giorni dopo, durante i quali aveva delirato in preda alle convulsioni, arrivando anche a parlare in aramaico come se fosse posseduta. Nel momento in cui aprì gli occhi, vide quelli neri e acquosi dello zebù e lanciò un urlo di terrore. Il suo amico cornuto tentò di rassicurarla e le spiegò che era stato proprio lui a ritrovarla e portarla in salvo nella grotta di giada dove ora erano rifugiati. In un primo momento, Gaia non volle saperne di staccarsi dalla stalagmite a cui si era aggrappata in preda al panico. Fu solo dopo molte ore che riuscì effettivamente a calmarsi. Si avvicinò titubante allo zebù, per poi crollargli addosso in un abbraccio appassionato, riuscendo soltanto a mormorare: “Grazie”, prima di scoppiare per la seconda volta nella sua vita in lacrime. E fu molto peggio della prima, perché ora ad ogni movimento, sussulto e tremore arrivava una fitta di dolore a scuoterla ulteriormente, in ricordo della violenza subita.

Pianse di sofferenza, sì, ma anche di rabbia nei confronti della bestia che le aveva fatto questo, e dei suoi genitori, che l’avevano abbandonata a se stessa, dei suoi amici che non erano con lei per sostenerla – a parte lo zebù ovviamente – e soprattutto era arrabbiata nei suoi stessi confronti, perché la sua ingenuità era stata tale da permettere che tutto ciò accadesse.
Passavano i giorni, ma la fanciulla non trovava pace. A nulla servivano le parole dolci del ruminante, che mai la lasciava sola, né i regali della natura che prima invece apprezzava spontaneamente, né le costosissime scarpe ultimo modello di Jimmy Choo che aveva trovato nel tronco di un albero cavo.

Così, ormai quasi senza più forze per andare avanti, una notte di tempesta, mentre lo zebù giaceva sul suo letto di foglie di palma ancora profondamente addormentato, Gaia lasciò la grotta raccogliendo le sue ultime energie – ma senza lasciare indietro le Jimmy Choo – in punta di piedi, per non svegliare il suo compagno. Decise di tornare a casa sua, al calduccio del suo letto.
Camminò stancamente per tutta la notte sotto la pioggia incessante.
Al mattino, il sole tornò a risplendere.
E con esso, apparve l’arcobaleno.

Si fermò a contemplarlo, pervasa dai ricordi del dolce amore che aveva provato e che, forse, in qualche modo provava ancora, ma era quasi come se fossero ovattati e lontani. Non voleva. Desiderò riviverli ancora, di vederli nitidi, di tornare a quando avevano senso, quantomeno per ritrovare un po’ di quella felicità che era parte integrante di lei un tempo. Un tempo che ormai le apparve remoto e irraggiungibile. Realizzò che non poteva semplicemente tornare a casa, sebbene dentro di sé fosse tanta, troppa, la voglia di sentirsi ancora quella principessa innocente, che si meravigliava di ogni minimo e anche futile dettaglio. Così corse disperatamente verso l’arcobaleno, colma di nuove forze. Corse e corse come una povera pazza, finché non raggiunse il calderone vuoto, e dunque ancora privo di guardiano. Si lanciò nella scia colorata e umida dell’arcobaleno e si fece trasportare fino in cima, sicura di rivivere parte di quella felicità perduta. Non appena fu lì, però, per prima cosa il dolore tornò a colpirla, ancora più forte. Sentì dentro di sè che non sarebbe servito a nulla tornare indietro, né nel tempo, né in quel mondo, o in quel regno che non avrebbe mai più sentito suo e che per questo non sarebbe stata mai capace di governare. Perché ormai non sarebbe stata felice mai più. Perché il suo dono era andato perduto per sempre. Lo sapeva. Lo sentiva.
In fondo nemmeno tentare ne sarebbe valsa la pena: se non ci riusciva ora che ne era tanto sicura, come avrebbe potuto in seguito? Non voleva sentirsi così mai più, non voleva mai più fallire.

Non provando più alcun timore, posò un’ultima volta lo sguardo sull’incredibile panorama che le si estendeva davanti agli occhi, guardò languidamente le favolose scarpe che aveva con sé e che mai avrebbe indossato, e le gettò via. Poi, ormai libera, si aprì in un ultimo debole sorriso e si lasciò cadere. Proprio dalla cima dell’arcobaleno, che tanto aveva significato per lei.
Per fortuna, i suoi genitori erano ancora abbastanza giovani e in salute, ed ebbero un altro figlio che ereditò il regno, il mondo continuò ad andare avanti e tutti ebbero la possibilità di essere felici.
Fine.

  • La vita non è una fiaba, anche quando lo sembra –
    Francesco Funaro.